Non ti far troppe domande. Sii te stesso !

 Nadia Gandolfo  Presidente  AVO  Torino
Nadia-200x208
 Il primo articolo del Nuovo Avo Torino Informa è scritto da Nadia Gandolfo: impressioni e sensazioni sulla sua esperienza di servizio nei reparti SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura).
NON TI FAR TROPPE                DOMANDE. SII TE STESSO !                   

“Ciò che sono è sufficiente purchè io riesca ad esserlo”                                                                            (C. Rogers)

Sovente il mio contatto con la sofferenza mi disorienta.

Vorrei partecipare nel modo giusto, però spesso non riesco a capire quale sia.

Vorrei saper comunicare meglio e rimandare al paziente la sensazione di uno “stare” accanto a lui  in un modo particolare, fatto soltanto di umanità.

Ogni volta ci provo.

  Nel servizio presso SPDC è consuetudine trovarsi accanto a persone di cui non si sa nulla, non si sa che cosa abbia prodotto la situazione d’improvvisa acuzie, né come si sia sviluppata. In questi casi mi coglie un stato di disorientamento perché mi pare quasi impossibile intravvedere una via di uscita. Il mio cervello non riesce a fermarsi al ”hic et nunc” e purtroppo vola ipotizzando per questi soggetti un futuro scuro e misterioso. E quindi uno stato di tristezza e di pessimismo mi pervade.

  È insito in me il desiderio, dal momento che sono lì, di poter offrire una pausa dal dolore, ma ho il timore che ogni mia parola possa essere fraintesa facendo ulteriormente sprofondare la persona nella sua sofferenza.

  La partecipazione al dolore altrui è sempre problematica. Ho capito qualcosa di più, quando per dolori importanti nella mia sfera più intima, gli amici e le stesse persone, che ritenevo a me vicine per sensibilità e affinità caratteriali, mi porgevano le condoglianze. Non sentivo lenito il mio dolore da quelle parole, seppur dette con il cuore. La loro realtà non era la mia e quindi mi suonavano come incoraggiamenti vuoti, privi di significato. Talvolta il mio dolore aumentava ancora di più perché come diceva la canzone di Mina “ … sono soltanto parole!”

  Nel caso di un dolore psichico, che deborda nel vissuto esistenziale, ho la sensazione, e lo stare accanto ai degenti degli SPDC mi ha dato conferma, che il mio tentativo di partecipazione possa a volte essere incorporato nel disagio finendo addirittura per alimentarlo. Ho capito talvolta che un tentativo di consolazione, seppur sincero e caloroso, può essere motivo di scatenamento di rabbia. Ragionamenti troppo oggettivi e particolareggiati con persone in preda ad un delirio possono potenziare lo stato confusionale e, in qualche caso, offrire libero sfogo all’aggressività. E allora spesso mi fermo e mi interrogo. Come posso stare accanto senza combinare guai, senza accrescere il disagio?
  Forse l’errore sta nella mia involontaria presunzione di essere il ”guaritore”, forse nella mia occulta convinzione di dover fare qualcosa di buono per la persona. Se rifletto un po’, arrivo a scoprire una quasi verità.

  Se la patologia mentale nasce all’interno del mondo delle relazioni e quindi nei processi di identificazione con le figure che hanno avuto un peso nel percorso evolutivo della persona, oppure se è albergata nel processo di costruzione della sua identità, allora mi è chiaro che non è compito mio trovare strumenti di cura, ma soltanto un’ efficace psicoterapia potrà sanare il mondo interiore del paziente debellandone i suoi fantasmi attraverso una relazione vera, perchè terapeutica.
  Quando si assopiscono le mie velleità di essere strumento di cura, ma prendono corpo le certezze di essere persona che accoglie, persona che offre vicinanza, persona che sospende ogni giudizio, mi sento all’improvviso molto alleggerita nel mio servizio di volontariato. Mi suonano molto veritiere le parole della psicoterapeuta Alessandra Graziottin “… giorno dopo giorno mi convinco che la sensibilità coniugata con l’accettazione incondizionata dell’altro sono la più efficace medicina che può somministrare il volontario”.

   La mia fragilità infatti tende ad accomunarsi a quella dell’ “altro”.  Scopro che tutti noi, malati e sani, supposto che la linea di demarcazione sussista, ci libriamo su un crinale, dove sanità e malattia spesso si sfumano una nell’altra.

  Quando riesco a fare questa riflessione, mi acquieto e ritorno nel SPDC più tranquilla, più rinfrancata perché il mio stare accanto all’altro diverso da me non può che arricchirmi.
  Siamo due persone, due “sistemi aperti”, capaci da dare e di ricevere, nei modi più diversi, spesso nelle forme più occulte, l’energia per vivere.

 solitudine-psicologia-586x541